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USS Ticino e Moesa

«Stop alle pressioni»

L’Unione sindacale svizzera, sezione Ticino e Moesa (USS-TI), sostiene la decisione del Consiglio di Stato ticinese di chiudere tutte le attività produttive non essenziali. «Alla luce della drammatica evoluzione della crisi sanitaria, le misure recentemente adottate in Ticino sono necessarie per contenere la diffusione del coronavirus.

Il mantenimento della distanza sociale non è in effetti applicabile in numerose situazioni lavorative, e la situazione sanitaria non permette oggi di lavorare in sicurezza, come peraltro condiviso anche da diverse associazioni padronali dei settori coinvolti» spiega l’USS.

Il contesto relativo al contagio nel nostro Cantone, che anticipa lo scenario nazionale, «giustifica ampiamente la chiusura delle attività non socialmente indispensabili. Il Consiglio di Stato ticinese, anche dopo le deroghe concesse ufficialmente al Ticino da parte della Confederazione, dovrà verificare rigorosamente l’applicazione della chiusura e valutare attentamente la sua durata senza subire pressioni d’ogni sorta».

Per i sindacati è chiaro: «La priorità assoluta è la protezione della salute». Il Ticino, come spesso ribadito dalle autorità cantonali, è infatti confrontato con un’emergenza di gran lunga anticipata rispetto al resto della Confederazione. Per questo si giustificano misure più incisive. E per questo non si giustificano pressioni.

Medici e ricercatori ticinesi schierati con il Cantone

A dare man forte al Governo ticinese una settantina di medici e ricercatori che la scorsa settimana hanno sottoscritto un documento a favore delle misure decise dal Consiglio di Stato, che ha disposto il blocco di cantieri e attività produttive non necessarie o urgenti. «Queste misure - hanno sottolineato i firmatari, tra cui nomi illustri - sono sicuramente dolorose per l’economia ticinese e svizzera, sono però indispensabili per rallentare il diffondersi della malattia e evitare in questo modo il collasso del sistema sanitario, con conseguenze gravissime per tutti». Le parole dei 70 medici e ricercatori ticinesi hanno probabilmente fatto breccia anche a Berna.