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Colpi di diritto

«Genere diverso altro salario?»

©Patrizia Pellandini Minotti

E pensare che tutto era iniziato così bene ... Tina aveva trovato il lavoro dei suoi sogni: attività interessante, buone condizioni, bell’ambiente, prospettive di carriera. Cosa voler di più? Durante il primo mese, Tina viene istruita dal suo predecessore. Tra le mille cose, questi le dice di aver a suo tempo iniziato con uno stipendio superiore, nonostante la sua formazione, l’esperienza e l’età di allora non fossero molto diverse da quelle di Tina oggi. Tina si rende quindi conto di non essere stata trattata correttamente.

«Uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore». È quanto recita dal 1981 la costituzione federale all’articolo 8. Dal 1996, la legge federale sulla parità dei sessi impone a tutti i datori di lavoro che: «nei rapporti di lavoro, uomini e donne non devono essere pregiudicati né direttamente né indirettamente a causa del loro sesso (...).» (Art. 3 cpv. 1 LPar).

Tina può quindi far valere il proprio diritto a «un salario uguale per un lavoro di uguale valore» nei confronti del datore di lavoro. Il fatto che una donna dalle qualifiche paragonabili a quelle del suo predecessore sia stata assunta con uno stipendio inferiore, indica infatti che si tratta di un caso di discriminazione di genere. Tina non deve nemmeno fornire prove.

A norma di legge, sono sufficienti indizi che rendano la discriminazione verosimile. Spetta invece al datore di lavoro dimostrare compiutamente di non aver operato alcuna discriminazione di genere e convincere il giudice che la differenza salariale sia dovuta ad altri motivi legittimi. Argomentazioni generiche come «gli stipendi sono dettati dal mercato»; «per il resto, offriamo ottime condizioni di lavoro» ecc. non bastano. In assenza di spiegazioni valide, il giudice non può far altro che accertare la discriminazione salariale.

Come deve procedere concretamente Tina? Il primo passo deve essere il contatto con il datore di lavoro, verificando di ricevere da questi una risposta scritta. Se questo passo non porta ad un accordo, Tina si può rivolgere all’autorità di conciliazione (in Ticino, l’ufficio di conciliazione in materia di parità dei sessi) se il suo contratto di lavoro è di diritto privato, rispettivamente al servizio competente se è impiegata di diritto pubblico. La procedura di conciliazione è gratuita, ma non l’eventuale assistenza legale, per la quale però Tina, che è membro del SEV, può far capo al servizio di assistenza giuridica senza incorrere in spese. Se nemmeno la procedura di conciliazione permette di giungere ad un accordo, l’ufficio emette un’autorizzazione a procedere, con la quale Tina si può rivolgere entro 3 mesi al Pretore (in altri cantoni al tribunale del lavoro) competente. Se invece il suo rapporto di lavoro è di diritto pubblico, fa stato la procedura amministrativa.

E se Tina dovesse essere licenziata? Il licenziamento può essere contestato in quanto «ritorsivo», ossia emesso solo perché la dipendente ha fatto valere i propri diritti. In base alla legge sulla parità, Tina può chiedere di essere reintegrata. Il tribunale ha anche la facoltà di intimare la reintegrazione mentre la procedura è ancora in corso, nella misura in cui risulta evidente che la decisione finale confermerà l’annullamento del licenziamento.

Non è però nemmeno detto che si debba giungere a tanto. Dal 1° luglio 2020, le aziende con oltre 100 dipendenti sono infatti tenute ogni quattro anni a far svolgere da revisori esterni un’analisi sulla parità salariale, sulla base di un metodo scientifico e conforme al diritto.

L’obiettivo costituzionale del «salario uguale per un lavoro di uguale valore» diviene così anche un obiettivo aziendale, che il datore di lavoro ha tutto l’interesse a raggiungere al più presto e in modo stabile. Ne va dell’ambiente all'interno dell'azienda e anche della propria reputazione. Infatti, nessuno vuole essere additato come “discriminatore”!

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