Discriminazioni nel mondo della formazione

«A 15 anni non si compie una scelta atipica»

Christian Imdorf è ricercatore presso l’Università di Berna ed è particolarmente interessato alle differenze di genere, di nazionalità e di età nel sistema di formazione in Svizzera e all’estero. Ci spiega come si manifesta la discriminazione nelle diverse aziende e ci illustra le raccomandazioni per migliorarele possibilità dei candidati descritti come «atipici».

Christian Imdorf si concentra attualmente sullo studio del sistema di formazione.

Lei studia le discriminazioni e le pari opportunità, giusto?

Christian Imdorf: Sì, mi occupo soprattutto della segregazione di genere nel sistema educativo e formativo, segregazione che si riflette poi nel mondo del lavoro.

Ha studiato in modo particolare la discriminazione riguardanti gli apprendisti al momento dell’assunzione in diversi settori, come garage, studio dentistico e medico.

È vero, una dozzina di anni fa. In quell’occasione ci eravamo concentrati sulle aziende formatrici. Attualmente le mie ricerche sono rivolte piuttosto al sistema della formazione in generale, che produce segregazione.

Nelle sue ricerche sui garage, per esempio, che cosa avete constatato?

Avevamo notato che le aziende formatrici reclutano in base a criteri di genere per anticipare da un lato il disfunzionamento che, secondo loro, potrebbe sorgere nell’azienda; d’altro lato i rischi di abbandono o di fallimento della formazione.

E cioè?

Per certi datori di lavoro le donne non hanno la necessaria forza fisica, sono spesso assenti e potrebbero perturbare un ambiente composto unicamente da uomini. Alcuni menzionano pure il rischio di un abbandono precoce del posto di lavoro dopo l’apprendistato.

Non bisognerebbe assumere una apprendista meccanica in un garage?

Certo che sì; la metà delle aziende interpellate erano favorevoli all’assunzione di una apprendista. I datori di lavoro sottolineano la loro motivazione e risultati scolastici eccellenti. Le giovani, inoltre, «calmerebbero il clima di lavoro e vi porterebbero un tocco di raffinatezza».

Gli uffici per le pari opportunità incoraggiano la scelte di formazioni atipiche. Funziona?

Non veramente. Incoraggiare le ragazze a scegliere un mestiere definito «maschile» non basta. Avrebbero bisogno di un sostegno e di risorse dal momento della formazione e durante tutto il percorso, fosse soltanto anche per il reclutamento.

Che ne è dei dentisti e dei medici?

Siamo confrontati con casi opposti. Gli uomini non hanno praticamente nessuna possibilità di trovare un posto di apprendistato come assistente in uno studio medico o dentistico. I titolari pensano che i giovanotti siano meno inclini alla subordinazione. Si teme che le relazioni di lavoro gerarchiche non possano funzionare correttamente. Dentisti e dottori argomentano indossando i panni degli avvocati dei giovanotti: occorrerebbe insomma proteggerli da una formazione professionale che metta in questione il modello di uomo come capo famiglia. Mentre si accetta senza problemi che la donna limiti le proprie pretese professionali, si respinge totalmente l’ingresso degli uomini nelle professioni dove non esistono grandi possibilità di carriera. Ma attualmente questa situazione sta cambiando: i datori di lavoro sono sempre più spesso delle donne in professioni liberali (avvocate comprese) e ciò modifica gli schemi abituali.

Situazione analoga, penso, negli asili nido, presso i parrucchieri e i centri di cura: si evita di assumere personale maschile quando ci sono candidati.

Ci sono 230 mestieri repertoriati, quindi bisogna interessarsi caso per caso. Le mie ricerche si orientano ormai sul sistema della formazione in sé, che obbliga i giovani adolescenti a scegliere la loro strada molto presto. Troppo presto. Non si compiono scelte atipiche a 14-15 anni. Nei paesi anglosassoni la scelta professionale viene fatta più tardi e ciò comporta una minore segregazione.

Sì, però si può comunque cambiare idea più tardi. Oggi, del resto, è molto più facile cambiare.

È soprattutto facile evolvere in modo verticale (penso alle scuole universitarie professionali e alle diverse possibilità di perfezionamento) ma non in modo orizzontale, ossia cambiando totalmente settore.

Ma che cosa bisogna fare per ridurre la segregazione in base al genere?

I datori di lavoro hanno una grande responsabilità perché intervengono al momento dell’assunzione. Anche i servizi di orientamento professionale hanno un parte di responsabilità.

Ci sono altre forme di discriminazioni? Quali?

Ci possono essere discriminazioni in base all’età o alla nazionalità. Quest’ultima discriminazione interessa molti giovani in Svizzera, chiaramente confrontati con svantaggi al momento di iniziare il loro apprendistato. Una delle conseguenze di questa discriminazione è che questi giovani non possono cominciare un apprendistato nei mestieri che prediligono; devono purtroppo contenere le loro aspirazioni accettando tirocini meno esigenti in settori in cui i datori di lavoro faticano a trovare apprendisti. Esiste anche la discriminazione in base all’età: le aziende desiderano assumere apprendisti maturi: non ragazzini e neppure degli adulti. Insomma non devono essere né troppo giovani, né troppo vecchi.

Come è evoluta la situazione dei giovani di origine straniera?

Una decina di anni fa i giovani stranieri della prima generazione avevano, in base a risultati scolastici uguali, molte meno possibilità (quattro volte meno) di trovare un posto di apprendistato rispetto ai giovani svizzeri. C’era una forte concorrenza per ottenere un posto di formazione in azienda, tenuto conto della penuria. Ma oggi le cose sono cambiate, il numero di giovani alla ricerca di un apprendistato è diminuito e i datori di lavoro non possono fare tanto li schizzinosi. Siamo dunque di fronte a un miglioramento per i giovani di origine straniera, sebbene questo dato possa essere fuorviante: certi gruppi, infatti, continuano ad essere discriminati, in funzione appunto del loro paese di origine. Semplici corsi di appoggio scolastici e linguistici non basteranno per migliorare la loro integrazione fintanto che le aziende metteranno l’accento sull’adattamento sociale come priorità al momento dell’assunzione. Occorre piuttosto cambiare l’organizzazione della formazione.

Com’è la situazione nei trasporti pubblici?

Si tratta di un caso particolare poiché esiste la rete di formazione « login », una buona soluzione per combattere le discriminazioni. Il reclutamento avviene in modo molto professionale ed è separato dalle aziende. Occorre inoltre precisare che più un’azienda è grande, minori sono i rischi di discriminazioni. E una rete come «login», per diverse professioni, può offrire all’apprendista di cambiare datore di lavoro dopo un anno; è dunque meno grave se le cose non vanno per il verso giusto. Tutto il processo di reclutamento nel quadro della rete di formazione è fatto in modo tale da contenere le discriminazioni, siano esse in base al sesso, l’età o la nazionalità.

Perché si discrimina allora?

Perché l’azienda vuole semplicemente diminuire i rischi legati all’integrazione. Esistono altre logiche di discriminazione (come quella che considera il rapporto costi- benefici), ma la logica dell’integrazione sociale appare come la più pertinente. Le piccole aziende non possono contare su aiuti per risolvere i problemi, contrariamente a quelle grandi e alle reti di formazione che beneficiano di un servizio professionale per la gestione di casi difficili. L’integrazione sociale in azienda ha un impatto precoce sul reclutamento a livello di piccole aziende. Mentre questa integrazione ha pure un impatto sulle grandi realtà aziendali, ma più tardivo. Insomma, le grandi aziende invitano al colloquio anche i candidati cosiddetti atipici, mentre nelle piccole aziende non arrivano neppure alla prima scrematura delle candidature.

Quali soluzioni propone?

Occorre cambiare l’organizzazione del reclutamento, integrare impiegati qualificati provenienti dalla realtà migratoria nel processo di reclutamento designandoli come reclutatori. Si tratta di una necessità, poiché l’esperienza ci insegna che ad essere responsabili del reclutamento sono raramente persone figlie dell’immigrazione. Sarebbe anche auspicabile rendere pubbliche le esperienze positive con giovani immigrati. In questo modo si potrebbe convincere le aziende formatrici sulla bontà di un impegno sociale, perché a lungo termine è pagante sul piano economico (in questo modo la presenza di nuovo personale qualificato è garantita e l’immagine dell’azienda ne guadagna). La clientela, le associazioni, i consumatori, le consumatrici, le associazioni professionali e settoriali, come pure i media e i/le responsabili politici, possono accrescere la pressione sulle aziende ed esigere maggiore diversità a livello di giovani in formazione.

Henriette Schaffter/frg