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intervista all’avvocato Martin Hablützel

«Amianto: non si vuole vedere la tragedia»

L’avvocato zurighese Martin Hablützel rappresenta numerose vittime dell’amianto. Intervista.

Perché in Svizzera è così difficile affrontare il tema dell’amianto?

Martin Hablützel: in Svizzera, in caso di crisi, si tende a ignorare a lungo il problema, nella speranza che si risolva da sé. Nel caso dell’ amianto, ci è voluta la decisione della corte europea per i diritti dell’uomo che la questione non potesse andare in prescrizione ancora prima che la persona si rendesse conto di essere ammalata. Vi è poi il fattore della pace del lavoro, che induce a proteggere imprese ed imprenditori e ad evitare di andare a fondo sulle responsabilità.

Ma come mai la questione interessa anche imprese di trasporto come FFS e BLS? In fondo, l’amianto è un materiale edile.

Le ferrovie l’hanno però utilizzato soprattutto nelle intercapedini e negli armadietti elettrici, per contenere la formazione di calore. Ciò ha portato problemi nelle revisioni, quando si dovevano sostituire le componenti elettriche, oppure montare nuove condotte di ventilazione. Inoltre, per decenni, tutte le vetture sono state risanate nelle stesse officine, a Bönigen per la BLS, o a Bellinzona per le FFS.

Lei è specializzato in responsabilità civile e diritto assicurativo. Ha però promosso anche diversi procedimenti penali. Lo ha fatto per poter giungere a conclusioni chiare?

No, al contrario. In primo luogo, dobbiamo capire cosa è successo, in quanto una richiesta di responsabilità civile deve essere motivata da un errore di comportamento. Il diritto penale offre il vantaggio di obbligare lo Stato a svolgere i chiarimenti necessari. È stato per esempio il caso in canton Glarona, con il procedimento penale contro la Eternit, a Baden contro l’ABB o a Thun contro la BLS. A Bellinzona, si sta adesso verificando se le FFS sono venute meno alle disposizioni di protezione di lavoratrici e lavoratori.

Come ha raggiunto il primo successo?

Nel diritto penale, viene dapprima chiarito se qualcuno si è reso responsabile di un comportamento penalmente rilevante in relazione all’amianto. Il diritto civile deve invece chiarire il diritto ad un risarcimento finanziario per chi si è ammalato. Vi è poi il fondo di aiuto alle vittime, che entra in scena nel caso in cui non si riesca a chiarire chi è il responsabile, oppure se quest’ultimo non ha soldi. Infine, abbiamo la Suva: chi contrae una malattia professionale, ha diritto ad un’indennità giornaliera e alla copertura delle spese di cura. Se non migliora, ha poi diritto ad una rendita e alla cosiddetta indennità di menomazione di integrità (IMI), ossia ad una specie di risarcimento. Qui abbiamo fatto dei passi avanti.

In che senso?

L’IMI viene versata in caso di forte limitazione della funzione respiratoria. Inizialmente, la Suva sosteneva che questa potesse essere versata al più presto solo dopo due anni di osservazione, poiché lo stato di salute non risultava ancora stabile. Una motivazione particolarmente cinica, in quanto il 97% delle vittime di amianto decedono entro questi due anni. Siamo quindi giunti ad un accordo che ha permesso alle vittime dell’amianto di ricevere un indennizzo mentre sono ancora in vita. Dal 2017, all’emissione della diagnosi di mesotelioma della pleura viene versata l’IMI intera, che attualmente corrisponde a circa 119’00 franchi.

Martin Hablützel

Nel 2017 è stata anche creata la Fondazione...

La Fondazione è sorta a seguito della decisione della Corte europea dei diritti umani. Rappresenta una soluzione pragmatica, che prevede un fondo di indennizzo rivolto in primo luogo a chi ha contratto un mesotelioma, ma non riceve prestazioni della Suva poiché la sua malattia non può essere collegata ad un’esposizione all’amianto avvenuta in ambito professionale. Le persone però muoiono lo stesso e spesso talmente in fretta che sono poi i famigliari a ricevere le prestazioni del fondo.

Il fondo ha evaso anche le cause in corso?

No, anche se il fondo di indennizzo viene utilizzato come scudo per proteggere l’industria dai procedimenti. Qui non mi riferisco solo all’ industria dell’amianto, ma anche a quella assicurativa. Il fondo è senz’altro un’istituzione valida, ma ha lo svantaggio di non permettere di elaborare nei dovuti modi la tragedia dell’ amianto. Confrontarsi con essa permetterebbe però di svegliare le nostre coscienze per il futuro, per esempio nei confronti delle questioni legate alle nanotecnologie, ai danni da radiazioni, o altro ancora.

Lei comunque non rinuncerà ai processi?

No, ma dobbiamo considerare che in Svizzera un simile processo dura, solo in prima istanza, almeno cinque anni. La controparte schiera una rappresentanza molto agguerrita di avvocati. Nel procedimento di Glarona, ho contro quattro parti, tra le quali le FFS, coinvolte a causa del confine con la stazione, sul cui piazzale venivano trasbordati i sacchi di amianto. Gli avvocati di queste controparti scrivono praticamente ciascuno un libro a difesa delle proprie posizioni. Non si bada certo a spese.

Quel che è peggio è che si è costretti a convivere 30, 40 anni con la paura, per poi morire così in fretta. Si ha il dubbio di aver inspirato amianto e si deve aspettare che la malattia si dichiari..

È in effetti un grosso problema, che però fortunatamente tocca poche persone. Vi sono moltissimi lavoratori che hanno lavorato in questi stabilimenti per decenni senza contrarre la malattia, ma ho anche il caso di una vittima che vi ha lavorato per sole quattro settimane. In Svizzera non vi sono indennizzi per chi è stato confrontato per anni con queste situazioni, ma solo la possibilità di richiedere un sostegno psicologico tramite il fondo e una visita medica annuale all’assicurazione infortuni. In Francia, la situazione è diversa: chi ha lavorato in stabilimenti in cui si trattava o vi era amianto, riceve un indennizzo.

Da inizio anno il termine di prescrizione è stato portato da 10 a 20 anni. Per le vittime una presa in giro?

È in effetti, come minimo, una disposizione assolutamente inutile; un altro esempio di compromesso svizzero che non serve a nessuno. Sappiamo infatti che il periodo di latenza, ossia il periodo che trascorre tra il contatto con la polvere di amianto e la diagnosi di cancro, può durare 30 o 40 anni. 20 anni sono pertanto assolutamente insufficienti. Si dovrà quindi ripassare attraverso tutte le istanze, sino al tribunale federale o persino alla corte europea dei diritti dell’uomo, perché la controparte continua a trincerarsi dietro a questi termini di prescrizione.

L’amianto è tutt’ora presente in diversi stabili e veicoli. Le FFS lo hanno ritrovato a sorpresa un paio di anni fa su veicoli a Bellinzona. Una maggior prudenza non dovrebbe permettere di evitare queste situazioni?

Qui vi sono state senz’altro lacune nei procedimenti di controllo, che non devono verificarsi nemmeno presso le ferrovie. Ormai si sa quali siano le situazioni a rischio e si conoscono pure i provvedimenti e le precauzioni da prendere, senza per questo cadere in isterismi, né alimentare paure.

Peter Moor

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Barbara Spalinger risponde

Se sono stato in contatto con l’amianto nello svolgimento del mio lavoro o se ho dei dubbi, cosa devo fare? E quali sono i miei diritti come dipendente?

In primo luogo, è importante dire che le preoccupazioni dei collaboratori delle Officine di Bellinzona sono del tutto legittime. Si sono resi conto che alcune persone entrate in contatto con l’amianto nella loro attività professionale, non hanno beneficiato dei programmi di screening della SUVA. Più di 50 persone si sono già annunciate all’Ufficio sicurezza delle Officine da quando la SUVA ha inviato una lettera sul cambiamento di frequenza dei controlli.

Queste domande non si limitano alle sole Officine. I dipendenti di altri stabilimenti industriali ci hanno contattato e siamo lieti di consigliarli.

La salute sul lavoro è un elemento centrale del lavoro sindacale. Circa dieci anni fa il SEV aveva lanciato una campagna d’informazione sull’amianto vietato in Svizzera dal 1990.

I consigli dell’epoca sono tuttora validi. Per questo motivo invitiamo tutti coloro che hanno lavorato con l’amianto e che oggi nutrono dei dubbi, a contattare il proprio datore di lavoro. Spetta a quest’ultimo il dovere di informare le persone che hanno lavorato con questo materiale sui loro diritti e di includerli nel programma di monitoraggio (screening).

Se in azienda questo approccio è insoddisfacente, il SEV può intervenire presso il datore di lavoro, consigliare e supportare i membri attraverso il proprio servizio giuridico.

Alcune malattie legate all’amianto possono manifestarsi fino a 40 anni dopo l’esposizione. Si prevede pertanto un picco tra il 2020 e il 2030. Nei trasporti pubblici, le persone che hanno lavorato nei servizi tecnici sono le più a rischio. È quindi essenziale che abbiano risposte immediate a tutte le loro domande.