Morire di lavoro
Il volto oscuro della moda
Cambio di stagione, cambio di armadi. Gli abiti estivi e primaverili si fanno largo, mentre le grandi catene di abbigliamento hanno già iniziato da mesi il loro bombardamento pubblicitario per invitare consumatori e consumatrici a rinfrescare il guardaroba. Complice la comunicazione digitale, il marketing aggressivo batte colpo su colpo con proposte «imperdibili» - e se non fai acquisti subito, hai perso un’opportunità - «offerte speciali» e «promozioni di stagione». Alzi la mano chi non ha mai ceduto alla tentazione.
Eppure l’alternativa esiste. Si può infatti essere consumatori e consumatrici critici e consapevoli. Perché dietro al magico mondo della moda, c’è un oscuro mondo fatto di sfruttamento e di violazione dei diritti umani, con la complicità delle multinazionali della moda. Nessuno può aver dimenticato la tragedia del Rana Plaza in Bangladesh, quando il crollo del palazzo (il 24 aprile 2013) che ospitava lavoratori e lavoratrici tessili sottopagati, fece 1’138 vittime. È di un mese fa la notizia secondo cui il governo del Bangladesh sta utilizzando ogni mezzo per impedire il funzionamento dell’Accordo sugli incendi e la sicurezza degli edifici, mettendo così a rischio la sicurezza dei lavoratori. Il governo sostiene di avere la capacità di controllare le 1’688 fabbriche, ma la recente ricerca pubblicata da Clean Clothes Campaign, International Labor Rights Forum, Maquila Solidarity Network e Worker Rights Consortium (firmatari dell’Accordo in qualità di testimoni) mostrano un livello scioccante di impreparazione. Gli incendi alle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh confermano del resto che le agenzie nazionali di controllo non sono ancora all’altezza del loro compito. Nel mese di marzo 2019, un altro incendio in una fabbrica di abbigliamento a Dhaka ha ferito otto persone.
Ecco perché la Campagna abiti puliti (in inglese Clean Clothes Campaign, CCC) svolge un ruolo importantissimo. Lavora infatti su diversi livelli: dall’attività di sensibilizzazione e coinvolgimento dei consumatori (proprio alcuni giorni fa si è svolta a Ginevra la «Giornata della moda responsabile» organizzata da Public Eye), alla pressione verso imprese e governi, affinché assicurino il rispetto dei diritti dei lavoratori dell’industria dell’abbigliamento e delle calzature.
«Clean Clothes» è la più grande alleanza del settore abbigliamento composta da sindacati e da organizzazioni non governative. È una rete di più di 250 partner che mira al miglioramento delle condizioni di lavoro e al rafforzamento dei diritti dei lavoratori dell’industria della moda globale. Oggi è diffusa in 14 paesi europei, tra cui la Svizzera, dove è coordinata da Public Eye. Gli strumenti utilizzati sono la realizzazione di campagne su tematiche specifiche (salario dignitoso, salute e sicurezza, trasparenza, lavoro migrante) e il lancio di azioni urgenti che possano favorire la consapevolezza e mobilitare le persone sia individualmente, sia collettivamente. L’obiettivo è sostenere le richieste di assistenza e solidarietà dei partner internazionali per la risoluzione di casi di violazione nei paesi di produzione.
Anche l’ambiente paga un prezzo elevatissimo e di conseguenza anche le persone. Nel quadro del «Festival du film Vert», a Monthey, lo scorso mese di marzo è stato proiettato il lungometraggio «Vert de rage: Indonésie, le fleuve victime de la mode». Si parla del Citarium. Situato a ovest dell’isola di Giava, in Indonesia, il Citarum è considerato il fiume più inquinato del mondo, il cui livello di contaminazione è cinquemila volte superiore a quelli consentiti. A completare il quadro già di per sé devastante, le fabbriche tessili circostanti che, senza alcun controllo, versano nel fiume pericolosissime sostanze chimiche. Il disastro ecologico è noto ma incalcolabile. Le cattive condizioni igieniche sono la causa di 50 mila morti ogni anno, oltre alle altre forme di vita marina e terrestre.
Spesso si parla di «vittime della moda» quando si allude alle persone che seguono tutte le tendenze, spesso prigioniere dello shopping compulsivo. Ma le vere vittime sono le persone - da 60 a 75 milioni - che lavorano nell’industria dell’abbigliamento e delle calzature, pagando un prezzo altissimo. Sarebbe davvero ora - come chiede un’iniziativa popolare (cfr box) - che le multinazionali si assumessero le loro responsabilità, invece di pensare solo ai profitti.
Françoise Gehrinng
Per multinazionali responsabili
L’iniziativa per multinazionali responsabili, a tutela dell’essere umano e dell’ambiente, si inserisce perfettamente nei principi difesi dalla campagna «Clean Clothes». Essa chiede che le imprese aventi sede in Svizzera devono fare in modo che le loro attività commerciali rispettino i diritti umani e le norme ambientali, ovvero devono impegnarsi nel fare affari in modo responsabile. Per assicurarsi che anche le imprese poco scrupolose rispettino questa regola, le violazioni dei diritti umani e l’inosservanza delle norme ambientali internazionali dovrebbero avere delle conseguenze e le imprese dovrebbero assumersi le proprie responsabilità. Il voto è previsto nel 2020.