Rivera - Conferenza dell’Unione sindacale svizzera Ticino e Moesa sull’Unione europea e l’attuale crisi
L’affondo del neoliberismo
Certo, è inutile negarlo ad oltranza: la crisi del modello europeo e la libera circolazione delle persone, hanno un prezzo, particolarmente alto per lavoratori e lavoratrici.
«Che cosa resta dei nobili principi di Jean Monet, uno dei padri fondatori dell’Europa? Ben poca cosa». Ha esordito così il presidente dell’Unione sindacale svizzera Ticino e Moesa introducendo la mattinata di studio sull’Europa Graziano Pestoni. «Oggi l’Unione europea si muove su logiche puramente finanziarie, con conseguenze pesanti sul mercato del lavoro e a livello sociale». La realtà è lì da vedere. E Sergio Rossi, professore ordinario di economia all’Università di Friborgo, questa realtà l’ha contestualizzata con gli occhi lucidi del ricercatore.
La camicia di forza della politica monetaria
Al centro della riflessione le ricadute della crisi dell’eurozona su lavoratori e lavoratrici, mentre sullo sfondo aleggia la politica monetaria e il macigno della finanziarizzazione. Se si pensa che l’euro è una moneta unica senza Stato, si può facilmente comprendere che manca una controparte istituzionale che faccia da contrappeso alla politica monetaria. Il processo di finanziarizzazione – per cui interessi e paradigmi finanziari hanno avuto la meglio su qualsiasi aspetto socio economico – è un’eredità degli anni Ottanta che negli anni si è ingrossata come un fiume in piena: oggi banche e sistema finanziario sono sempre più grossi, prepotenti e invadenti. Del resto, ha spiegato Rossi, la finanziarizzazione è figlia dei regimi neoliberisti, con tutti i suoi volti e le sue conseguenze: «La finanziarizzazione - ha spiegato il professore - si traduce in un’ampia diffusione delle strategie di management e di aumento del valore borsistico delle imprese per attirare capitali. Per non parlare della deregolamentazione crescente del mercato del lavoro e della tendenza a decentrare la contrattazione salariale. Questo processo favorisce la riduzione del livello di impiego e dei costi del lavoro per aumentare la competitività delle imprese». Insomma il processo di finanziarizzazione dell’impresa e della società è l’espressione materiale della costruzione dell’egemonia del grande capitale. Così si conferisce ai principali azionisti delle società un maggiore controllo sulle stesse, inducendole prima di tutto a massimizzare il rendimento dei propri fondi e dunque a migliorare i dividendi.
Finanziarizzazione e declino del lavoro
Nel bel libro «La fabbrica della crisi», Angelo Salento e Giovanni Masino sottolineano lo stretto legame tra finanziarizzazione dell’impresa e declino del lavoro, inteso come «declino sia dell’occupazione, sia del valore sociale del lavoro, sia del potere economico e negoziale delle classi lavoratrici». È – ahinoi – chiarissimo che una gestione aziendale centrata quasi esclusivamente sul rigido controllo dei costi, si traduce inevitabilmente in un rapporto con il personale di pura calcolabilità: «Nel lavoratore non si cerca la qualità dell’essere insostituibile, ma la qualità di essere indefinitamente sostituibile». Assistiamo quindi ad una vera e propria trasformazione del rapporto del lavoro, dove l’impresa si riappropria del pieno controllo sulla flessibilità normativa e salariale, che altro non è se non l’obiettivo ultimo dell’impostazione neoliberista. Del resto Sergio Rossi non ha mancato di sottolineare come «dalla condizione del personale si sia passati alla gestione delle risorse umane, orientata alla flessibilità secondo esigenze a breve termine».
L’austerità fallimentare
Rossi non ha mancato di denunciare il fallimento delle politiche di austerità imposte quasi manu militari dalla cosiddetta Troika senza consultare il popolo. Ricette al veleno che hanno avuto un impatto negativo sulle politiche di protezione sociale, sui sistemi pensionistici e sulle politiche occupazionali. Certo, la situazione è molto più complessa rispetto a quanto tentiamo di descrivere in queste righe, ma gli effetti di questa crisi esistenziale dell’Unione europea la constatiamo tutti i giorni frequentando da vicino il mondo del lavoro, dove gli svantaggi degli accordi bilaterali in certi casi hanno superato la soglia del dolore. Rispondendo ad una domanda della platea, Sergio Rossi ha parlato di aumento della concorrenza - sleale - nel mercato del lavoro ed ha stilato un elenco che si sgrana come un rosario del declino: «Mancato rispetto delle misure di accompagnamento, pressioni al ribasso sui salari, rallentamento dell’espansione dei consumi autoctoni, riduzione della coesione sociale e nazionale, aumento dei prezzi e delle pigioni nel ramo immobiliare, tendenza alla sostituzione dei lavoratori (poco qualificati) e aumento della durata della disoccupazione per varie categorie».
Piste per uscire dalla crisi
Ma allora come uscirne? «Intanto evitando il (sovra)indebitamento delle famiglie (la crisi attuale in Eurolandia non è legata al debito pubblico ma al debito privato), e il rigonfiamento di bolle speculative sugli atti reali o finanziari. Occorre poi introdurre – spiega Rossi – un salario minimo differenziato che varia secondo il progresso tecnico nel ramo di attività interessato, tenendo inoltre conto dell’evoluzione del costo della vita nella regione in cui si trova. Necessario anche introdurre un limite tra il salario massimo e il salario minimo nelle grandi aziende transnazionali. Infine introdurre un comitato misto per la determinazione delle retribuzioni e per la co-gestione dell’impresa.
In una recente intervista al «Fatto Quotidiano», il sociologo italiano Luciano Gallino si è espresso sulle condizioni per contrastare ideologicamente e culturalmente la vulgata neoliberista. Ecco la sua risposta: «Il neoliberismo ha stravinto la battaglia culturale, ha conseguito un’egemonia a cui Gramsci poteva guardare con invidia: controlla 28 su 29 governi dei paesi dell’area europea, qualunque siano i nomi dei partiti di governo. Ha il 95 della stampa a favore, il 99% delle TV, domina nelle università e ha conquistato i governi (…). Il fatto è che non basta dire ‹proletari della UE unitevi› o cambiando forma dire ‹precari› o ‹classi medie impoverite dell’UE unitevi›. Bisogna fornire idee, documenti, possibilità di azione e controreazione».
Affronto al dialogo sociale
E bisogna ovviamente continuare con le denunce, come quella di Nicola Nicolosi della CGIL, che accende i riflettori su dati che danno fastidio ma sono tremendamente reali: «In Europa è aumentato il lavoro minorile e sono aumentati fenomeni di repressione. Nel contempo sono diminuiti i diritti sociali e sanitari. Crescono populismi e xenofobia, le ricette neoliberiste con il loro carico di privatizzazioni tornano prepotentemente in auge. I tenori del neoliberismo fanno molti proseliti, lo si vede – come sindacati europei – nel drammatico indebolimento del dialogo sociale. Un dialogo che non c’è più e che nelle trattative si traduce in una roba del genere: senti io faccio così, te lo comunico e arrivederci». Un approccio arrogante che in Ticino sta ormai mettendo solide radici.
Françoise Gehring