«Voglio continuare a crederci"

Saverio Lurati ha annunciato che lascerà la presidenza dell’Unione sindacale Ticino e Moesa alla prossima assemblea dei delegati, in giugno. Con lui abbiamo ripercorso un periodo ricco di cambiamenti e fatto il punto di una situazione attuale molto delicata, in Ticino ed in Svizzera.

Penso che la nostra richiesta di un salario minimo di 4000 franchi sia un primo doveroso passo per il riconoscimento della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori di questo paese.

contatto.sev: il minimo che si possa dire è che hai vissuto 26 anni di attività sindacale molto movimentati.

Saverio Lurati: Ho in effetti iniziato nel 1988 nel SEL, Sindacato edilizia e legno. In seguito è divenuto SEI, sindacato edilizia e industria e poi, con la fusione con la FLMO (Federazione dei lavoratori metallurgici e orologiai), ho vissuto la fondazione di UNIA. Penso che le attività svolte in precedenza mi abbiano molto aiutato ad affrontare questi cambiamenti.

In che senso?

Sino a 38 anni, ho lavorato nel settore privato. Ho iniziato come apprendista elettrauto, poi ho seguito la formazione di meccanico d’aviazione e sono poi diventato responsabile di un’officina con una quindicina di persone prima di diventare funzionario sindacale.

Cosa ti ha portato a fare questo passo?

A 26 anni, ho iniziato a far politica nella sinistra del mio comune ed in seguito sono stato contattato dall’allora segretario della sezione del SEL di Lugano, che mi ha proposto di occuparmi da professionista dei problemi del lavoro.

Al giorno d’oggi, un passo simile sembra quasi impossibile.

All’inizio, non ero iscritto a nessun sindacato, anche perché ero presuntuoso al punto da esser convinto di poter risolvere i problemi da solo. Quando però sono diventato responsabile dell’officina in cui lavoravo, mi sono trovato quasi inconsciamente a fare anche il rappresentante sindacale per il «mio personale». Evidentemente, è qualcosa che mi sentivo di fare e che sono riuscito a svolgere anche grazie all’aver saputo individuare i giusti margini di manovra nei confronti del datore di lavoro.

E quindi hai iniziato una nuova attività professionale, come sindacalista di un settore che però non era quello in cui eri stato attivo sino ad allora.

La scelta del sindacato non era stata dettata da motivi ideologici, ma dai miei rapporti personali con l’allora segretario del SEL, anche se vi era certo una contrapposizione tra una linea sindacale più rivendicativa, a me più vicina, propria del SEI e una maggiormente corporativa, seguita dalla FLMO. Mi ricordo del secondo sciopero che avevo condotto presso una ditta di Chiasso, quando il segretario della FLMO era intervenuto sul suo omologo del SEL e mio superiore, chiedendogli di intervenire per abbassare i toni delle mie richieste.

Noi hai più vissuto questa contrapposizione in UNIA?

No, ciò che dimostra come queste divisioni sono alimentate più dagli apparati sindacali che da lavoratrici e lavoratori. Ho iniziato come «propagandista» sui cantieri e sui posti di lavoro e, anche grazie ai miei trascorsi, mi sono sentito in sintonia con lavoratrici e lavoratori, che penso mi abbiano sempre recepito come «uno di loro». Dopo la creazione di UNIA, sono stato accolto molto bene anche nel settore industriale. Credo che dipenda proprio dalla volontà di capire i loro problemi, oltre che dalla capacità di trovare soluzioni concrete.

Ma come si può oggi conciliare la capacità di fronteggiare le sfide sempre più complesse poste dal sistema economico con quella di rispondere alle esigenze quotidiane?

Il sindacato ha bisogno di sindacalisti con solide esperienze professionali precedenti. Ciò ha evidentemente un costo, che il sindacato deve però assumersi. Evidentemente, deve poter far capo anche a persone con un percorso accademico, che possono portare un contributo fondamentale allo sviluppo delle strategie generali. Ma abbiamo bisogno di persone che vengono «dal fronte».

Non trovi però che chi ha raggiunto una certa posizione, difficilmente è poi disposto a scavalcare il fossato e raggiungere il sindacato?

Credo che nel fronte progressista vi siano molte figure disposte a farlo e che, semmai, stiamo perdendo la capacità di individuarle. Per esempio, nelle liste dei consessi comunali troviamo molte persone che hanno già fatto una scelta e che non hanno paura di esprimere le proprie idee, pur essendo confrontati con realtà quotidiane molto concrete. È quanto mi sembra manchi oggi nel nostro paese, dove l’area di sinistra e progressista in genere è spesso molto preparata a livello intellettuale e concettuale, ma lo è molto meno a livello emotivo, in quanto manca della capacità di confrontarsi con la realtà quotidiana di chi lavora. Questo apre il campo a chi cavalca idee populiste, che si fanno largo anche grazie alla mancanza di coesione tra chi lavora.

Dovrebbe essere il compito del sindacato.

Certo, però anche l’attuale struttura dell’Unione sindacale, divisa in federazioni quasi ermetiche fra di loro, è secondo me un ostacolo, in quanto non favorisce l’unione tra lavoratrici e lavoratori di tutti i settori, pubblici e privati, indispensabile ad ottenere veri progressi. L’esempio più eclatante di quanto si potrebbe ottenere è la lotta delle Officine di Bellinzona.

Si è trattato di un momento di coesione veramente molto forte...

Soprattutto se consideriamo che stiamo vivendo un’epoca in cui vi sono forze che fomentano le divisioni. In Ticino, per esempio, da un ventennio la Lega ripete che i funzionari pubblici a tutti i livelli sono fannulloni, mettendo alla berlina sul suo giornale chi si permette di esprimere un parere diverso e alimentando nell’opinione pubblica un’animosità che va scardinata a tutti i costi. Oggi, se qualcuno ha una posizione meglio tutelata viene dipinto come un opportunista e vi è un forte fronte della politica borghese che punta in primo luogo ad abbattere questi presunti privilegi, anziché preoccuparsi del benessere del paese.

Un benessere messo sempre più sotto pressione anche dalle condizioni dei paesi circostanti.

L’andamento dell’economia, purtroppo, non è nelle nostre mani. Oggi si cerca di costruire la competitività unicamente sul costo del lavoro. Abbiamo vissuto epoche in cui gli schiavi erano addirittura considerati privilegiati rispetto ad altri che non avevano possibilità di sostentamento. Abbiamo però saputo puntare all’affrancazione e all’autosufficienza di tutti invece di accontentarci di generalizzare la schiavitù.
Dobbiamo mantenere la consapevolezza che la ricchezza prodotta complessivamente aumenta. Vediamo stipendi di manager che esplodono, mentre quelli inferiori, in termini reali, diminuiscono. Basti pensare che UBS e CS hanno pagato i rispettivi CEO oltre 12 milioni di franchi ciascuna, nonostante l’approvazione dell’ iniziativa Minder, che voleva contenere questi salari. Il problema è quindi nella ripartizione della ricchezza.

Alla conferenza stampa per il 1° maggio, hai definito il 18 maggio una data campale per il nostro paese.

Penso che la nostra richiesta di un salario minimo di 4000 franchi sia un primo doveroso passo per il riconoscimento della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori di questo paese. Una dignità spesso calpestata e che ha finito, alimentata da forze populiste senza che i partiti di centro si siano sentiti in dovere di replicare, per generare la frustrazione che ha portato al voto del 9 febbraio. È un risultato che ci deve preoccupare, perché ha sancito una divisione tra lavoratori che ha sempre più il sapore di una guerra tra poveri.
La fissazione di uno stipendio minimo potrebbe rimediare a questa divisione, permettendo oltretutto controlli efficaci delle situazioni di dumping che stanno avvelenando il nostro ambiente di lavoro. Il nostro cantone ha un livello salariale inferiore di circa il 15 percento a quello nazionale. L’iniziativa eviterebbe a molte persone di dover far capo ad aiuti dell’ente pubblico, che svolge una funzione sussidiaria all’economia privata che paga salari indecenti. A livello cantonale, saremo anche chiamati a votare su di un progetto di amnistia che propone di condonare il 70 percento delle imposte a chi ha evaso il fisco per decenni. Ingiustizie che dovrebbero indurre ogni cittadino di buon senso a fare una scelta ovvia.

Per questo hai parlato della necessità di un patto generazionale.

Ritengo che siamo in una situazione di emergenza, data da un numero crescente di persone che, nel pieno della loro capacità lavorativa, devono far capo ai servizi sociali. Oltre che una tragedia a livello personale, è una minaccia per tutto il sistema, dato che ritarda le scelte di autonomia di questi giovani, per esempio di formare una famiglia. Senza contare che queste difficoltà finanziarie rischiano di accompagnare questi giovani per tutta la vita. È per questo che abbiamo bisogno di un patto generazionale, che riunisca tutti a tutela dei diritti dei lavoratori.

Ti sei sempre definito una persona ottimista. Il quadro che abbiamo dipinto lascia però poco spazio all’ottimismo.

Il mio ottimismo viene dalla convinzione che il popolo di questo paese è molto meno egoista di quanto si potrebbe pensare in base ai risultati di certe votazioni. Al momento opportuno, ha sempre saputo manifestare un sicuro idealismo e voglio continuare a crederci.

Pietro Gianolli

Bio

Saverio Lurati è nato nel 1950, sposato, padre di due figli ormai adulti e nonno di tre nipoti. Dal 2003, fa parte del gran Consiglio del canton Ticino quale rappresentante del partito socialista, di cui è presidente dal 2012. Dal 2007 è presidente dell’Unione sindacale Ticino e Moesa.
È appassionato di montagna, di sci e di viaggi.