Le rivelazioni di «Power from the people», titolo che si ispira alla canzone di John Lennon «Power to the people»
Meno sindacati, più ingiustizie
Uno studio dell’FMI mette in relazione l’aumento delle disuguaglianze con la diminuzione degli iscritti al sindacato.
È il quinto singolo della carriera solista di John Lennon. È un brano caro alla sinistra e ai/alle manifestanti pacifisti contro la guerra del Vietnam: «Power to the people». Quasi 45 anni dopo, il titolo di quella canzone ha ispirato non le chitarre, ma le penne di due ricercatrici, Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron autrici dello studio «Power from the people» che racconta, anzi dimostra, la crescita delle disuguaglianze in relazione alla erosione egli/delle iscritti/e ai sindacati. Questo studio ha una targa particolare: FMI, ossia Fondo monetario internazionale. Che non è un covo di sinistra o di faziosi ricercatori rossi. L’FMI, fautore convinto della globalizzazione che con le sue «ricette» economiche affama mezzo mondo, è uno degli organi propulsori del turbo capitalismo e del liberalismo. John Lennon, che una volta trasferitosi negli USA è stato sorvegliato dall’FBI perché da sempre vicino alla sinistra, sarebbe stato il primo a sorprendersi di questo paradosso.
Senza sindacati, ricchezza concentrata in poche mani
Che cosa dice «Power from the people», presentato dalle autrici sulla rivista dell’FMI «Finance & Development»? Ci dice che il declino del numero dei lavoratori e delle lavoratrici iscritti/e ai sindacati (e questo aspetto merita indubbiamente una riflessione a parte) è fortemente associato con l’aumento della quota di reddito nelle mani dei ricchi; in altre parole il calo degli iscritti ai sindacati spiega metà dell’aumento di 5 punti della concentrazione del reddito nelle mani del 10% più ricco della popolazione, nelle economie avanzate, tra il 1980 e il 2010.
«L’indebolimento dei sindacati − scrivono le autrici − riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello dei possessori di capitale, aumentando la remunerazione del capi- tale rispetto a quella del lavoro e porta le aziende ad assumere decisioni che avvantaggiano i dirigenti, per esempio sui compensi dei top manager».
Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron fanno anche notare che, in base a recenti studi, questa iniquità «può non solo portare a una crescita minore e meno sostenibile, ma può anche essere nociva per la società, perché consente ai più ricchi di manipolare in proprio favore il sistema economico e politico», sostiene Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001.
Quando pensiamo che nelle nostre contrade si accusano i sindacalisti di «ricattare» le aziende con l’arma – legittima e costituzionalmente garantita – dello sciopero. Quando leggiamo che certi tenori della grande distribuzione definiscono i contributi paritetici dei Contratti collettivi di lavoro (CCL) delle «tangenti» per i sindacati, sembra di essere tornati all’era preindustriale, quando il lavoro era totalmente sganciato dai diritti. Ma questo è il profondo degrado del clima nel mondo del lavoro in Ticino. Dove l’unica vera regola, è quella di non averne. Come se le regole fossero, per alcuni imprenditori, una palla al piede di cui liberarsi.
Il neoliberismo ha ripreso vigore
Pensare che la spinta del neoliberismo fosse alle spalle, è un’illusione. Anzi ha ripreso vigore e voce con nuovi protagonisti. Il nuovo sport è: delegittimare il sindacato. La parola magica è: massimizzazione dei profitti. L’ordine di marcia è: costi quel che costi. Responsabilità collettiva? Zero. Responsabilità sociale? Zero. Money, money, money. È l’unica cosa che conta. I dati sono chiari: nel 2014 le sole imprese svizzere quotate in Borsa hanno inondato gli azionisti di 34 miliardi di franchi in dividendi (+ 5% rispetto al 2013). Quegli azionisti a cui non si chiede mai il benché minimo sacrificio o un contributo equivalente a quelli imposti ai lavoratori e alle lavoratrici – quelli sì ricattatorii -come condizione necessaria alla sopravvivenza. Un esempio su tutti: il taglio del 26
Se non ci fosse stato il sindacato, per le maestranze della Exten non ci sarebbe stata la benché minima possibilità di riscatto. Un riscatto che a livello generale ha rilanciato il convincimento a lottare– tra mille ostacoli– -per difendere il posto di lavoro, il potere d’acquisto dei salari, per salvaguardare le pensioni, per rimettere al centro la dignità. Perché non c’è lavoro senza dignità. E se ora anche uno studio dell’FMI afferma che il sindacato rappresenta un bisogno per le società moderne non solo in termini di regolazione e di tutela, ma anche come straordinario fattore di crescita, di eguaglianza, di salvaguardia materiale e di promozione dei diritti, una parte padronale di questo paese dovrebbe farsi un esame di coscienza.
«Power from the people» ci dice che la manodopera sfruttata e basta, soffre; e soffre anche per mancanza di giustizia sociale, così necessaria e rivendicata dall’originale «Power to the people» di John Lennon, che invitava «milioni di lavoratori che lavorano per niente [cioè per una miseria, ndr], a scendere nelle piazze». Ma mi resta un tarlo, non da poco. C’è comunque da chiedersi come mai proprio ora uno studio del genere da parte di una costola di Bretton Woods, che ha generato entità come FMI e Banca mondiale, che a loro volta hanno sostenuto politiche inique, se non addirittura ipocrite e focalizzate su interessi particolari. Davanti al disastro dell’economia mondiale e a lacerazioni figlie di profonde disuguaglianze, forse ora l’FMI intende recuperare l’importanza dei sindacati più come strumento di crescita, meno come forza che tutela i diritti.
Più sindacati e salario minimo
L’analisi di Jaumotte e Osorio Buitron si concentra anche sugli strumenti che possono modificare la distribuzione dei redditi verso le classi lavoratrici e il ceto medio, i due principali settori vittime degli effetti del neoliberismo. La lotta contro la «dispersione dei redditi, la disoccupazione e per la redistribuzione» può rinascere attraverso una nuova ondata di sindacalizzazione e la creazione di un salario minimo. La generalizzazione del salario minimo a livello internazionale non aumenta la disoccupazione, come invece sostiene una fitta schiera di economisti, ma permette di contenerla, sostengono le ricercatrici. Le soluzioni suggerite da Jaumotte e Osorio Buitron sono quelle tradizionali fordiste. Quella più importante consiste nel restaurare il ruolo del sindacato come «mediatore sociale» universale e la sua identità di «cinghia di trasmissione» con i partiti politici. «Sindacati più forti – scrivono – possono mobilitare i lavoratori e le lavoratrici a votare per i partiti che promettono di redistribuire il reddito».
Françoise Gehring